Perché tutti continuano a sostenere Berlusconi nonostante tutto? Perché continueranno a votarlo? Lo sappiamo bene, nell’ultimo Paese democratico del mondo il premier si sarebbe dimesso per molto meno, sarebbe bastata la notizia di una relazione con una prostituta. Qui c’è molto, molto di più. Ma il Cavaliere non perde il suo appeal. I motivi sono diversi e si intrecciano tra loro. Quello più banale è il potere mediatico di Berlusconi. Nelle sue mani c’è un impero che concentra tv, editoria cartacea, web e una quantità infinita di marchi a lui riconducibili. I successi di Milan, Fininvest, Mondadori rafforzando la convinzione che sia lui l’uomo della provvidenza. Dalla sua parte c’è l’abilità ad utilizzare questi media, soprattutto la tv. Conosce il potere di questo strumento su una popolazione, tutto sommato, poco scolarizzata, che ancora non ha familiarizzato troppo con i nuovi strumenti del comunicare. Sa, meglio di tutti, che la scatola magica dà alle parole l’autorità che non hanno. Qui si dice ancora: “L’ha detto la televisione”. E la televisione in 50 anni di storia è cambiata poco, basti pensare che nei programmi più popolari vince ancora lo stesso modello di ancorman. Carlo Conti è il doppio abbronzato di Pippo Baudo. Significa che anche l’Italia è cambiata poco, del resto questo è un Paese vecchio. Lo dicono le statistiche. In questo deserto il Cavaliere sa come far passare i suoi messaggi: può dire quello che vuole. Sa che nel flusso catodico verità e menzogna si confondono, i simboli perdono i loro legame con le cose. I giornali? Quelli sono destabilizzanti. Ma, per fortuna, nessuno li legge. Lui stesso non perde occasione per dirlo: “Non leggete i giornali”. Sottovalutare il potere della televisione è un errore. I tecnocrati non saranno d’accordo, si legge e si scrive di tv da troppo tempo. Ma il dibattito è aperto. Del resto, non si può non tenere conto che Forza Italia è nato e in pochi mesi è diventato il partito più forte di tutti proprio grazie alla tv.
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The Social Network, in un film la solitudine di Facebook
di Roberto Gallone *
“And right now you could care less about me, but soon enough you will care” (e ora potrebbe importarti di meno di me, ma presto ti importerà) recita il testo della vibrante Ball & Biscuit dei White Stripes nell’overture di The Social Network (in Italia nelle sale dal 12 novembre). “Baby you’re a rich man too” (ragazzo sei anche tu un uomo ricco) cantano i Beatles alla fine del film. A chi può importare di un ragazzo che ha un’idea “geniale”? A chi può “importare” un “ragazzo ricco”? Potrebbe essere questa l’analisi che ci propone David Fincher (Se7en, Fight Club, Zodiac) sulla vicenda che racconta la storia (quella di Mark Zuckerberg) e le storie (le vicende processuali) che si nascondono dietro il più popolare e più cliccato social network dei nostri tempi. Tratta il tutto, però, senza celebrazioni e sembra quasi voler documentare e raccontare una storia senza spessore, inutile e priva di valori. Il gioco funziona e Fincher pare volersi soffermare più che sul riconoscimento di un talento sulla pochezza dei personaggi e sulla vicenda squallida. Lo fa con un ritmo vibrante, con la misura dell’inquadratura, con l’esperienza di chi conosce il tempo della narrazione e sa raccontare i personaggi nella misura giusta ma, soprattutto, con l’attenzione di descrivere e raccontare una vicenda senza farla diventare mitica. L’epica che trasuda dalle storie di persone geniali qui pare non esistere, non siamo di fronte a Mister Hula Hop fatto di vicende, persone e luoghi che sapevano raccontarsi come una leggenda e Zuckerberg non è il genio Will Hunting, la sua è una presenza assente, senza pathos, senza carisma e senza ideali. La premura di Fincher sembra quella di chi si preoccupa di raccontare una vicenda sì “straordinaria” ma senza incensare troppo la “genialità” del protagonista. Il regista sembra non esaltare il ribelle, il genio, il profeta (come recita uno dei trailer del film), che si nascondono in Zuckerberg, ma piuttosto la vicenda umana di un solitario disperato che alla fine rimane tale nonostante la fama, il successo e la ricchezza.
Chi si aspetta di ritrovare in The Social Network un po’ di Facebook ne rimarrà deluso (non si parla di amici, foto e profili). Chi si aspetta un’analisi su una nuova forma di comunicazione che raccoglie i disperati che sfuggono dalla noia del quotidiano ne rimarrà altrettanto scontento; Fincher non si accosta minimamente al fenomeno Facebook, non si preoccupa di descriverne le dinamiche, le potenzialità o le lacune, il regista propone l’immagine di chi è dietro Facebook e non di chi gli è davanti, scava dentro la personalità di un giovane disperato, emblema di una società dalla comunicazione facile, pressappochista ed egocentrica, dettata dal voyeurismo e dal narcisismo, di persone che si “devono” inventare qualcosa per farsi notare.
* psicologo